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L’ossessione per il corpo. La Galleria Leòn abbatte gli stereotipi con l’arte

06-11-2025

Di Nadia Ruggiero

Viviamo un tempo in cui il corpo è diventato ossessione. Eppure dietro ogni forma c’è una storia che sfugge alle regole, un desiderio che non si lascia imbrigliare.

Attraverso un dialogo poetico tra corpo e natura, Francesco Esposito, in arte Serafino, costruisce un paesaggio sensuale e fluido, dove pelle, foglie e acqua si confondono e diventano un unico linguaggio visivo.

Corpi, abbracci e connessioni ci portano a considerare i legami sentimentali come una rete infinita di possibilità. Un ecosistema in cui emozioni, consapevolezze e desideri crescono come piante intrecciate tra loro.

Si chiama In Bloom la mostra fotografica di Serafino, è curata da Irene Bernardi e la trovate fino al 29 novembre in via Galliera 42/a alla Galleria Leòn, con quell’accento «messo dove non andrebbe», come spiega il suo fondatore e direttore artistico Leonardo Iuffrida: «In francese l’accento andrebbe sulla e, ma graficamente non mi piaceva. Leòn nasce dal mio nome, Leonardo, e volevo che suonasse come me: personale, imperfetto e libero.»

Una libertà che si sente nelle pareti bianche, tra fotografie d’epoca e opere contemporanee, e che racconta la storia di un sogno costruito senza fondi né sponsor, solo con ostinazione, sacrifici e una fede incrollabile nell’arte come atto di resistenza.

Calabrese di origine, bolognese d’adozione, Iuffrida vive in città da vent’anni. Si è laureato in Arti Visive al DAMS con una tesi in storia della fotografia, ha scritto saggi e pubblicazioni, è stato tra i primi, importanti blogger italiani di moda all’epoca in cui Chiara Ferragni esordiva come influencer. «Quelli come la Ferragni venivano definiti dagli esperti “outfit blogger”. Piuttosto che fotografarmi con il look del giorno, a me piaceva, invece, scrivere.» Poi, dopo anni di lavori precari e pause forzate, ha deciso di crearsi il proprio spazio: «Volevo un luogo dove comunicare le mie idee, oltre che nei libri. Così ho aperto la galleria con i miei risparmi. Nessun finanziamento, nessun sostegno. È un progetto nato solo dalla mia volontà.»

Cosa rappresenta per te questo spazio?

«È il mio sogno realizzato. Ma è anche una grande sfida. Leòn è nata per dare voce a tutte le forme artistiche che usano il corpo come strumento di comunicazione. Viviamo in una società dominata da selfie, social media, rappresentazioni costanti di noi stessi. Mi interessa capire come il corpo diventi linguaggio e come possiamo liberarci dagli stereotipi che ci impongono come apparire.»

Leonardo Iuffrida

Il corpo come filo rosso di tutta la programmazione, quindi.

«Sì, perché credo che oggi la rappresentazione della nostra immagine corporea sia una delle ossessioni più grandi. L’arte deve aiutarci a riflettere, a liberarci da gabbie culturali e sociali. Non mostro mai opere solo documentaristiche: voglio che diano soluzioni, che aprano brecce di luce nel buio in cui spesso viviamo, politico e sociale.»

Una parte della galleria è dedicata in modo permanente alla fotografia. Di che tipo?

«Una sezione è dedicata alla fotografia vernacolare, cioè immagini di autori anonimi che ho collezionato in vent’anni tra Europa e Stati Uniti. Si tratta di fotografie dal valore economico accessibile, pensate per rendere il collezionismo più democratico. Accanto a queste, una selezione di opere di grandi fotografi americani che, dagli anni ’40 agli anni ’90, hanno esplorato il tema del nudo maschile. Poi c’è un corner dedicato alle riviste antiquarie e contemporanee che si occupano di corpo.»

Hai trattato questo tema anche nel tuo libro “Il nudo maschile nella fotografia e nella moda”.

«Sì, è una parte importante del mio percorso, ne parlo in modo approfondito nel libro. Quelle immagini raccontano non solo corpi, ma il cambiamento culturale nel modo in cui la mascolinità è stata rappresentata. Fino a pochi decenni fa fotografare un uomo nudo poteva essere considerato un reato: dietro ogni immagine ci sono coraggio, desiderio e rivoluzione.»

In questo momento, nella sezione della galleria dedicata alle esposizioni temporanee, c’è la mostra “In Bloom” di Serafino. Come nasce?

«Serafino, nome d’arte di Francesco Esposito, mi ha proposto il progetto. L’ho trovato coerente con la linea di Leòn: dialogare con il corpo, ma anche con la libertà di espressione degli affetti. “In Bloom” fotografa elementi naturali accostandoli a morfologie corporee. È un invito a riflettere sul fatto che le forme dell’amore non sono binarie: l’amore è una rete infinita di possibilità.»

Qual è il messaggio della mostra?

«Nel corso dei secoli la natura è stata usata per normare i comportamenti umani, per definire cosa è “naturale” e cosa no. Serafino ribalta questa visione. Le sue immagini mettono in dialogo corpi, foglie, fluidità acquatiche, rocce: è un giardino di libertà. Ogni fotografia è un piccolo atto di resistenza contro modelli rigidi e imposti. E tutto è trattato con grande eleganza: non per scioccare, ma per far riflettere.»

Come si sostiene una galleria indipendente in pieno centro?

«Con tanta fatica. Non ho ricevuto alcun sostegno economico, né pubblico né privato. Tutto è frutto di investimenti personali. Cerco di creare momenti di incontro per generare rete e comunità, a breve dovrebbe partire anche un corso di disegno. Però resta difficile: a Bologna c’è molta sensibilità culturale, ma poco potere d’acquisto. Chi ama l’arte spesso non può comprarla; chi potrebbe acquistarla a volte non la comprende.»

Il 6 dicembre Leòn compie un anno. Che bilancio fai?

«Non parliamo di bilanci economici. Meglio rimanere sul bilancio umano e artistico, che è senz’altro positivo. Le persone cominciano a riconoscere il valore del progetto e questo mi dà forza. La galleria è come un bambino: fragile, ma piena di vita e, come un neonato, va protetta.»

Secondo te, qual è lo scopo dell’arte oggi?

«L’arte deve illuminare. Deve darci speranza. Viviamo in un momento buio e l’arte può essere una risposta, una possibilità di libertà. Con la Galleria Leòn non voglio imporre nulla, ma offrire uno spazio di riflessione e di ascolto. L’importante è lasciare che ognuno viva la propria libertà senza paura.»

Uscendo da Leòn si ha la sensazione di aver visitato più di una galleria: un luogo intimo, quasi domestico, in cui l’arte e la vulnerabilità condividono la stessa parete. Iuffrida parla con la sincerità di chi ha messo tutto sé stesso nel proprio sogno. E, in un momento storico in cui resistere sembra un lusso, la sua galleria dimostra che la bellezza — anche quando stanca, anche quando costa — può ancora germogliare.

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