Musica & Libri

“L’amore romantico si è frammentato, generandone altri migliaia”. Intervista a Dario Matassa

15-02-2021

Di Luca Vanelli

“Mi piace Bologna, mi piace la Spagna
Mi piace uno sguardo, mi piace un abbaglio
Mi piace la sabbia, mi piace una donna
Mi piace aspettarti, mi piace ballarti

E poi in un pomeriggio d’estate
M’addormento in una stanza in penombra
Con te o senza di te”

(Bel pomeriggio – I Camillas)

I Camillas hanno raccontato l’amore in un modo tutto loro, speciale e intimo. Gli sguardi, l’attesa, gli abbagli e i balli. Ma anche l’incertezza, con una donna che non si sa se dormirà con il protagonista in un pomeriggio d’estate.

E l’amore è anche questo, forse. Ma in questi tempi pandemici cos’è diventato l’amore? Sta cambiando? Come sono cambiati i rapporti tra di noi con le distanze, le assenze dei corpi e i nuovi modi di rimanere connessi a distanza?

Ho deciso di confrontarmi con chi ha indagato forme d’amore in un libro intero: Dario Matassa. Molti di voi lo conosceranno per essere stato parte del gruppo di Space Valley su YouTube, ma Dario ora è scrittore, cura una rubrica di opinioni su Vanity Fair e propone riflessioni su un podcast personale che si chiama SeconDario. A settembre 2020 è uscito il suo primo libro Non ti ho chiamato amore, ma ti ho pensato tale (Sperling & Kupfer), raccontando tutto ciò che aveva colto dell’amore nelle sue forme più particolari.

Parlando con Dario si coglie sotto pelle l’energia delle trasformazioni che un essere umano può affrontare in certi momenti della vita: i dubbi sulla popolarità, l’essere presenti, la costanza. Si notano sul suo volto i conflitti interiori che tutti viviamo ma che, spesso, chi vive di produzione di contenuti non può permettersi di esprimere. Dario ha deciso di buttare tutto fuori, di dire quando sta male, quando non ce la fa. E ancora oggi è nel pieno di una evoluzione personale che sta influenzando tutto ciò che ci racconta.

Abbiamo parlato di questo e di tanto altro, ma soprattutto abbiamo scoperto di avere una forte passione in comune: quella per i Camillas. Parlando abbiamo condiviso un sentimento d’amore a modo nostro, anche se per pochi istanti, ricordandoci di Mirko e della sua passione per la libertà di essere quello che si è, sempre. Questa chiacchierata è dedicata un po’ anche a lui.

Dario Matassa

In redazione ci stiamo ponendo alcune domande legate alle relazioni e ai sentimenti ai tempi del Covid. Come, secondo te, questo evento epocale cambierà i nostri rapporti emotivi e le nostre connessioni?

“Non parto nemmeno dalle situazioni sentimentali, ma penso anche solo ai contesti lavorativi… tutta questa situazione di smart working, interviste a distanza, vite vissute attraverso gli schermi, portano alla condivisione di istanti, ma non al convivere le emozioni.

Così manca proprio un tassello fondamentale della relazione: le emozioni hanno bisogno di convivere nello stesso momento. Per questo non sono convinto che queste modalità potranno andare avanti a lungo. Si troverà un nuovo equilibrio, ma le persone avranno sempre bisogno di stare nello stesso luogo e vivere nello stesso momento”.

 

La settimana scorsa abbiamo parlato anche del tema dei corpi distanti e dell’amore senza contatto fisico. Mi piacerebbe sapere se nel tuo libro hai riflettuto sugli aspetti più corporei di una relazione.

“Nel libro non c’è molta corporeità: ho raccontato una visione molto astratta dell’amore, eterea. I momenti di contatto fisico sono praticamente assenti e i due personaggi non vanno a letto insieme.

C’è un momento dove parlo di un contatto fisico particolare, quello dello sguardo che poi culmina in un bacio. In quel frammento mi sono focalizzato sugli effetti fisici che provoca uno sguardo su di sé: se una persona con cui abbiamo un legame ci guarda, allora quel guardarsi diventa come sfiorarsi fisicamente. Quello forse è il legame più stretto che ho creato tra amore e corpo: è la sensazione dello sguardo che si posa su di te e che ti senti addosso come un abbraccio“.

 

Non ti ho chiamato amore, ma ti ho pensato tale è il titolo del tuo libro e mi ha incuriosito molto. Negli ultimi tempi ho cominciato a pensare che possano esistere tante forme di amore diverse, ma che spesso non abbiamo le parole per pensarle o dirle. Tu quante forme di amore hai vissuto?

“Io ho scritto un libro di racconti, fatto di tante situazioni diverse, proprio perché non sarei nemmeno capace di scrivere un libro ‘d’amore’. Anche perché mi chiederei subito di cosa diamine dovrei parlare. Dovrei raccontare di due che si innamorano e stanno insieme? Oppure uno che si innamora della propria città?

Io penso di provare amore per Bologna, quindi anche quella è una forma d’amore. Penso di essermi innamorato soprattutto di determinati attimi e momenti, e basta. Ci sono dei frangenti piccoli, stretti, perché in quel determinato giorno e momento ero con una persona e ho provato amore verso quella persona”.

 

A volte possiamo anche avere paura di usare l’espressione “ho provato amore” per una certa persona in quel momento, perché poi automaticamente parte tutta una serie di elementi che devono essere necessariamente consequenziali all’amore. E quindi, con questa paura, non lo chiamiamo più.

“È vero, molto spesso temiamo quella parola. Bisogna dialogare con questa paranoia ed è quello che ho provato a restituire scrivendo, già a partire dal titolo. L’amore è una cosa che ci è stata inscatolata in un certo modo nella testa, ma è più una questione di sfumature di contenuto che di contenuto effettivo.

Vale tutto quello che proviamo, a maggior ragione oggi che è tutto fluido, sfumato e cambia di continuo. Ci sono tanti piccoli aspetti che concorrono, va e viene, c’è e non c’è. Molte volte non lo riesci a chiamare, ma lo provi. È complesso, come la realtà che viviamo”.

Come si decostruisce l’amore romantico e totalizzante che sembra essere l’unico modello che abbiamo nella mente? Può il racconto aiutarci a costruire nuove espressioni d’amore?

“Penso che parte dell’esperienza umana stia proprio nel trovare le parole giuste per esprimere concetti che rimangono inespressi fino a quando non proviamo a dargli una forma attraverso nuovi termini.

Oggi l’amore ‘romantico’ (quello in cui ci si innamora, ci si idealizza, si sta insieme tutta la vita e vissero per sempre felici e contenti) penso stia venendo meno e stiamo vivendo un momento di frammentazione, in cui da una forma canonica ‘romantica’ se ne generano altre migliaia.

Il racconto penso sia uno dei tanti modi per prendere la realtà che abbiamo intorno e cercare di dare dignità e rilevanza a tutti questi nuovi percorsi sparpagliati e imprecisi”.

 

A proposito di complessità, ho una curiosità. Ho notato che alcune volte hai dovuto giustificare la tua incapacità di essere costante con le pubblicazioni. Mi sembra di notare un contrasto nella società che viviamo: da un lato c’è quell’elemento che ci spinge a fare i nostri percorsi, a prenderci cura di noi, a curare i nostri tempi emotivi; dall’altro c’è una forte pressione alla costanza, in molti ambiti della nostra vita: al lavoro tutte le mattine alle 7, i social che ci spronano a creare continuamente contenuti per non perdere l’engagement. L’incostanza non è accettata in molti ambiti delle nostre vite. Ti volevo chiedere se vivi anche tu questo contrasto e se hai trovato un equilibrio fra queste forze.

“Questo contrasto è vivissimo dentro di me e ti dico subito che sono ben lontano dall’aver trovato un equilibrio. Sto attraversando un momento di grande cambiamento. Vengo da un percorso su YouTube con i ragazzi di Space Valley dove ho vissuto forte questo contrasto.

Nella mia testa si è fissato un discorso col tempo: la quantità, la costanza, la coerenza, l’esserci sempre sono tutti elementi che cozzano con la qualità. E difficilmente trovo casi nella realtà che mi facciano ricredere di questo, quindi penso ci sia una antitesi di fondo tra quantità e qualità che difficilmente trova un equilibrio”.

 

Oltretutto mi pare che questo discorso della costanza, oltre che cozzare con la qualità, cozzi soprattutto con il fatto di essere umani. Noi siamo i primi a non essere costanti e ad essere mutevoli. E continuare a incastrarci dentro questi meccanismi ci porta a farci delle violenza inaudite.

“Esatto. Penso ci sia una fiducia immotivata in questa presenza perenne, in questo dogma dell’esserci sempre, che però poi a conti fatti non produce contenuti qualitativi.

Da quando ho iniziato il mio percorso come creatore di contenuti non faccio altro che sentirmi dire: ‘devi essere costante’. Ho sempre risposto che parlo quando ho delle cose da dire e questo risulta inconcepibile. Intanto ho un profilo Instagram morto perché non mi va di inquinare l’ambiente e la testa delle persone, eppure l’iperproduzione viene premiata, soprattutto dagli algoritmi. Questa cosa mi lascia sempre molto perplesso”.

 

Forse avremmo bisogno di ripensare i meccanismi stessi dei social o almeno porsi il dubbio di come funzionano. Finchè tutto si basa su un meccanismo che premia l’iperproduzione, se vuoi partecipare al gioco devi per forza iperprodurre. Bisognerebbe provare a immaginare nuove regole per regolare la nostra convivenza online per vedere cosa succede.

“Sarebbe un esperimento decisamente interessante. Io cerco di portare avanti la mia battaglia nel mondo del podcasting, che mi sembra più svincolato da queste dinamiche. Mi sembra un mondo nel quale ci si possa prendere il ‘lusso’ di non uscire ogni giorno con qualcosa di nuovo ed essere comunque seguiti, facendo più affidamento su sé stessi, sul proprio ritmo.

Ciclicamente comunque faccio i conti con il senso di colpa, che non ha nessun senso alla fine. Se viviamo sentendoci in colpa di non produrre abbastanza, senza in realtà focalizzarci sulla qualità di quello che facciamo, significa che c’è qualcosa che probabilmente non sta andando come dovrebbe”.

 

Per chi è nel mondo della creazione di contenuti, c’è sempre un enorme dilemma sul dover compiacere il pubblico. Uno dei miei cantautori preferiti, Dargen D’Amico, nel suo nuovo album dice: “Ieri ho guadagnato, ma ora non so più rifarlo. Io questo business qua non so mica come lo si fa”. Ecco, il business spesso può portare agli estremi il dilemma del compiacere il pubblico: quanto faccio quello che voglio davvero e quanto devo assecondare il mio “pubblico”?

“Questo è un conflitto che penso arrivi a ossessionare chiunque lavori con la propria creatività. Quando ho lasciato Space Valley mi ha colpito molto una cosa: ero circondato da persone che mi davano del coraggioso perché stavo scendendo da una macchina funzionante, che mi dava visibilità e mi faceva guadagnare.

E io intanto stavo vivendo proprio quel conflitto: stavo perdendo i miei riferimenti, non sapevo più se mi rappresentava quello che stavo facendo. Sono arrivato a un punto in cui quel compromesso fra me e quello che facevo mi faceva stare male e ho dovuto cambiare aria”.

 

Come vivi questo conflitto? Mi sembra di notare una certa fatica a gestirlo.

“Davanti a questa dilemma mi pongo in maniera molto faticosa, è una gran fatica tutt’ora. Sono sempre diviso e consapevole che a un certo punto serve scendere a compromessi per campare.

Penso però che serva una certa attenzione per non ricadere nello stesso meccanismo inconsapevole e invisibile: iniziare ad assecondare troppo un’esigenza esterna, nel vita in generale, può diventare molto pericoloso. Inizi a rispondere alla domanda, fai i numeri, la gente ti segue, poi però non ti senti più rappresentato e tutto ricomincia.

È faticoso perché c’è una parte del tuo cervello che si chiede perché serva così tanta fatica per difendere la propria individualità, per difendere sé stessi.

Se però riesci a prendere le distanze dal meccanismo, se fai un po’ il tuo ritmo, forse diventi meno produttivo, forse guadagni meno, potresti perdere delle opportunità, però ti senti in pace. E alla fine questo è un elemento importante che ci stiamo dimenticando, spesso solo per seguire le correnti di approvazione”.

 

Ho visto un’intervista con Sofia Viscardi in cui parlavate di tristezza e lì dicevi che molte persone spesso ti dicono che sembri depresso. Ecco, mi pare non ci sia spazio per la tristezza molto spesso. Ci siamo abituati a una positività tossica e le persone sono poco allenate a vedere ciò che non è iperpomposo, iperfelice. Come ci si riabitua o ci si allena alla tristezza dentro gli spazi dei social?

“Qualcuno direbbe subito esibendo la tristezza, soprattutto su Instagram che è l’emblema di questa positività tossica. Molte persone hanno iniziato a esibire la tristezza e a pubblicare foto in lacrime o dei propri momenti bui.

Io personalmente penso che questa non sia la strada. Tutto ciò che viene esibito in maniera un po’ troppo estrema non produce una reale riflessione o decostruzione. Non è che si decostruisce l’idea della positività tossica mettendoci tutti a piangere su Instagram“.

 

E allora qual è la possibile alternativa?

“Credo che sia davvero difficile partire dai social per trovare un modo di riabituarsi alla parte più ombrosa di sé e alla tristezza, anzi penso che la strada sia proprio uscirne in questo caso specifico. Mi spiego meglio.

Sui social spesso è tutto finalizzato all’ottenimento di attenzioni. Se domani mettessi una foto di me in lacrime potrebbe anche esserci un tentativo comunicativo per lanciare un bel messaggio, però alla fine torno sempre lì: ho bisogno della mia dose di attenzioni.

Per riabituarsi alla natura umana serve immergersi nella vita. Si chiudono i telefoni, si vive la tristezza, si empatizza con le persone vicino a te.

Nell’anno passato ho avuto modo di riflettere sulla scomparsa momentanea della persone dalla nostra vita e anche sulla scomparsa dai social. La solitudine mi ha portato ad un punto inaspettato: mi ha fatto rendere conto di quanto siano importanti anche i passanti per la strada, per me. Durante il primo lockdown più duro, vedere scomparire i passanti per la strada mi provocava una sensazione di solitudine enorme”.

 

Nell’ultimo anno gli eventi che abbiamo vissuto mi hanno portato a ragionare anche sulla morte e la nostra incapacità di accettare la scomparsa, o anche solo dello stare nell’ombra. Mi pare si faccia ancora molta fatica a parlare serenamente di quello che proviamo quando si tratta di morte. Che rapporto hai con la morte?

“Ho pensato alla morte in un momento particolare, quando ad aprile è morto il cantante dei Camillas, Mirko. Scoprire che improvvisamente era morto in quel modo, così distante, mi ha procurato un momento di vuoto ed ho percepito delle emozioni forti legate alla scomparsa di qualcuno.

Ho sentito di essere affezionatissimo alla sua figura dopo i tanti concitati live. E avevo proprio il desiderio di tornare a uno di quei concerti prima o poi, ma così ho sentito il vuoto di una cosa che non potrà mai più accadere.

E da qui ho pensato anche a quanto tempo passiamo a costruirci strade e direzioni, forse troppo orientati al futuro e ai progetti, mentre poi le cose ci sfuggono dalle mani con niente”.

 

Vasco Brondi di recente ha fatto uscire un album chiamato “Talismani per tempi incerti”, raccogliendo tutti quegli elementi che gli sono risultati salvifici in questo periodo: poesie, testi, cover di canzoni. Quali sono i tuoi talismani per tempi incerti?

“Allora, devo ammettere di aver avuto la fortuna di trovare in me tutti i talismani di cui avevo bisogno. Personalmente è stato un anno pieno di novità e stravolgimenti. I mesi dopo l’abbandono di Space Valley sono stati molto impegnativi a livelli emotivo, quindi le mie energie erano tutte assorbite dal capire come stavo e quale direzione prendere.

Dicevano tanto di pensare a sé stessi, ecco io l’ho fatto. Il mio talismano è stato riflettere molto su me stesso. Ho avuto un’occasione e l’ho colta. E ognuno di questi avvenimenti è stata un’occasione per riflettere su di me: dalla fine di Space Valley, al libro fino allo studio”.

 


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