Lo scorso marzo abbiamo ricevuto e pubblicato una lettera d’amore per Bologna, ma eravamo solo all’inizio di questo anno incerto e imprevedibile. Oggi qualcosa è cambiato: forse abbiamo varcato una soglia, e dovremo aspettare un po’ per la prossima.
Abbiamo ricevuto questa lettera da Massimo Salvati, classe 1996, calabrese ma di stanza a Bologna dal 2015. Ha studiato Lettere Moderne alla triennale e ora sta per concludere Italianistica alla magistrale.
Oltre che sulla tesi, da una manciata di anni, è al lavoro su un libro di prossima pubblicazione. Durante il primo lockdown di marzo Massimo ha dato vita, insieme ad altri ragazze e ragazzi di tutta Italia, alla rivista culturale palinwebmagazine.it, online da dicembre.
La pubblichiamo perché, nella nostra riflessione sulla felicità, vogliamo coinvolgere anche voi lettori.
Testi, fotografie, illustrazioni… mandateci i vostri pensieri e riflessioni a info@aboutbologna.it.
Intanto, buona lettura.
Chi scrive è un ragazzo che si ritrova al suo ultimo anno di magistrale, nella fase di una transizione imminente, e con il ricordo di una Bologna fatta di parchi e festival, una Bologna grassa e dotta, con le sue osterie, i suoi vini, la sua cultura, mostre, vicoli, palazzi, e le persone stesse che imprimono la sostanza vitale all’ambiente, flatus vocis.
Una mattina come tante, chissà ancora per quanto, al secondo piano di una palazzina in via Malaguti, con proponimenti intatti, in apparenza, e non tentato da nulla se non dal sonno, dalla voglia di bere, o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle, mi chiedo se un giorno sarò meno stanco. Mi ridomando, e vorrei sapere, se nel mio corpo io soffra naturalmente la sorte di ogni altra persona.
Ultimamente è un pensiero che torna spesso, credo sia normale. Per quanto le notizie scorrano, gli eventi si susseguano, è come se fosse diventato più difficile riuscire a provare empatia per il corpo altrui. Ricordo infinite immagine di corpi sofferenti, continui annunci scanditi da comunicati, e Patrick Zaki, oggi tocca a lui, dopo un anno ancora confinato. Penso a lui e poi penso a quanti altri ce ne siano. Compagni universitari, ragazzi semplici, sottratti alla vita.
Appena uscito di casa mi sono fermamente convinto dell’idea di ritrovare lo spazio, ritrovarci negli spazi. Ma subito mi è sembrato un pensiero banale; sembrerebbe davvero bello poter auspicare un ritorno alla normalità, un ritorno alla vita delle strade, delle belle piazze, della vicinanza. Ma forse abbiamo varcato una soglia, e dovremmo aspettare un po’ per la prossima. Ma è così male? Credo fermamente che che la soglia abbia la funzione di costituire un riparo come la protezione di un tratto di muro che viene a essere interrotto: evita che qualcosa ti caschi in testa.
Poi arriva il classico “mi manchi”.
La frase che forse ci troviamo a ripeter più spesso. Lo diciamo alla vicinanza, al respiro libero, alla libertà di muoversi, di conoscere, di visitare, di uscire e far librare i pensieri. Mancano l’affetto libero e spensierato, la musica delle serate sparse, l’odore della birra versata nei vicoli.
Ma quanto è difficile varcare una soglia? Si dice che l’intera distanza che percorriamo nella vita sia uno spazio ornamentale rispetto a quelle sei o sette soglie che ognuno oltrepassa. È solo attraversando una soglia che entriamo nella stanza successiva. Siamo chiusi in gabbie, isolati, mentre il mondo corre, corre: stai attento che ti non lasci indietro.
Quante volte hai provato la sensazione di non saper verso dove stai andando? Quei sogni che hai, quegli obiettivi che ti sei imposto, quei traguardi che vuoi raggiungere, quel cambiamento che vuoi attuare nella tua vita. Tutto questo non deve essere un ostacolo perché nessuno di noi è da solo. Dobbiamo solo spezzare la gabbia.
Uscendo mi sono fermamente convinto di poter godere del tempo anche riscoprendo gli stessi posti, così tanto frequentati, ma con occhi nuovi. Con gli occhi complici di chi è consapevole che lo spazio, gli spazi, il loro recupero saranno elementi molto importanti dopo questa soglia: comprare un libro, passeggiare nel ghetto ebraico, passando per via Valdonica, e arrivare in piazza Minghetti, poi San Domenico, e poi in Carducci.
La Bologna che rispetto agli scorsi Natali, delle sue luminarie vendute, sembra un lontano ricordo, così come la musica, non più sparsa e sempre più rarefatta.
Ci sarà altro, mi dico, per la nostra Bologna.
Che fine ha fatto la felicità?
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