Quando Giuseppe Conte, con il suo primo discorso televisivo, ci ha detto di “restare a casa” abbiamo riempito i balconi, colorato lenzuola, razziato cubetti di lievito di birra, cantato, scoperto vecchi libri, nuove passioni. C’è chi, invece, si è ritrovato faccia a faccia con un mostro che ben conosceva o, col quale ha avuto il terribile incontro per la prima volta: la violenza domestica.
Giuseppe Martone Junior è un fotografo e filmmaker, ha passato il primo lockdown a casa, in compagnia del suo coinquilino e della sua compagna, Jacopo Socini e Francesca Pisi, i protagonisti del cortometraggio #oddiorestoacasa, già selezionato per diversi festival cinematografici.
Giuseppe ha avuto il coraggio di affrontare un tema importante e quanto mai attuale, lo ha fatto riuscendo a tirare fuori da Francesca e Jacopo emozioni importanti, che giungono sino a chi guarda il suo corto in modo diretto, senza fare sconti.
I dati diffusi dalla Regione Emilia-Romagna parlano chiaro, durante il primo lockdown nello specifico le chiamate al numero verde antiviolenza (1522) sono più che raddoppiate, se si analizza il periodo da marzo a giugno, passando dalle 365 del 2019 alle 804 del 2020.
I mesi dove il Governo ha dovuto mettere in atto le maggiori azioni restrittive sulla mobilità dei cittadini hanno visto contrarsi le occasioni di incontro delle donne con i Centri Antiviolenza i quali, per aiutarle e assisterle, hanno potenziato le modalità di contatto da remoto, per non pregiudicare la possibilità a chi ha subito violenza di denunciare e ricevere assistenza.
Giuseppe mi ha raccontato con naturalezza e delicatezza la gestazione e realizzazione del cortometraggio, rendendomi partecipe anche di situazioni, fortunatamente risolte, di persone a lui note che hanno dovuto confrontarsi con situazioni analoghe a queste ed è a loro che, in modo ideale, dedica il lavoro che ha fatto.
Questo è un tema sul quale, a mio modo di vedere, è stato detto e raccontato troppo poco. Cosa ti ha spinto a pensare e a girare questa storia? Come nasce il progetto?
“Il progetto nasce da un’idea che avevo già in mente da circa un anno, in seguito a una frequentazione che ho avuto con una persona che ha avuto un’esperienza di questo tipo. Ho avuto modo di vedere e toccare con mano le cicatrici che lasciano sul corpo e sull’anima situazioni così dure, così probanti. La violenza sia fisica che verbale genera insicurezze difficili da sanare, attacchi di panico coi quali è quasi impossibile convivere.
Avendo vissuto il lockdown con Jacopo, già mio coinquilino, e Francesca, la sua compagna, ho potuto confrontarmi con loro sulla mia esperienza e di parlare di questo tema, coinvolgendoli in prima persona nella realizzazione del cortometraggio”.
Guardando #oddiorestoacasa ho provato rabbia verso Marco, il personaggio davvero ben interpretato da Jacopo Socini. Rabbia perché non capisco cosa possa spingere un uomo ad assumere un comportamento così violento verso chi dice di amare o aver amato. Secondo te dov’è il corto circuito nell’uomo?
“Il corto circuito è tutto nell’emancipazione sempre crescente della donne cosa che, alcuni uomini, è evidente, non sono in grado di accettare. Le donne hanno sempre maggior consapevolezza del proprio ruolo nella società, nel mondo del lavoro, in ogni ambito di una relazione e nella famiglia. L’uomo è come se fosse ‘impegnato’ in un percorso regressivo, non sa accettare una donna che guadagni più di lui, che abbia soddisfazioni nel lavoro, nelle relazioni amicali, che possa dire che una relazione è al capolinea.
Ci sono molte questioni alla base di tutto questo, sicuramente anche nel carattere dispotico di certi uomini, ma anche e soprattutto, in taluni casi, nel background familiare. Se vedi un padre violento, se vivi in una famiglia violenta, o hai la maturità di rifuggire questi comportamenti o sarai portato a reiterarli”.
Rebecca, interpretata con grande intensità da Francesca Pisi, si ritrova in una situazione di prigionia, proprio nel luogo che dovrebbe farla sentire bene: la casa che divide con il compagno. Cerca rifugio, conforto. C’è stato rifugio per donne come lei? Cosa potrebbe dare a una donna come Rebecca il coraggio e la forza necessaria per denunciare?
“Ci sono alcuni strumenti che possono aiutare le donne a non sentirsi sole, il 1522 è uno tra quelli maggiormente utilizzati durante il lockdown, serve a mettere in contatto le donne con i centri antiviolenza; è uno dei primi passi importanti per arrivare a far emergere le situazioni difficili vissute tra le mura domestiche.
Però credo che la cosa principale sia la grande voglia di vivere, di continuare a vivere e questo una donna può farlo ricordandosi com’era prima di avere paura di chi ha accanto. Una donna ha la sensazione di essere come paralizzata, il ricordo di ciò che era prima delle botte, delle sopraffazioni deve far emergere il loro forte attaccamento alla vita e a denunciare chi, con la propria violenza cieca, vuole tenerle intrappolate nel buio”.
Quando Marco dà il primo schiaffo a Rebecca, guardando le immagini, si avverte una stretta allo stomaco, si desidera entrare in scena e difenderla. Quanto è stato difficile girare quelle scene?
“È stato davvero difficile per l’aspetto emotivo, come hai evidenziato tu. Ho deciso di mostrare la violenza solo in parte, decidendo di farla intuire, senza mostrarla; senza renderla esplicita. Ho fatto questa scelta per provare a far avere un impatto maggiore verso il pubblico, dando un pugno metaforico verso chi subisce violenza, in modo da scuotere, ma anche verso chi è violento, affinchè possa rendersi conto di quanto sia abietto il comportamento che sta tenendo e infine verso per chi sta attorno a quella coppia, in modo che sia sempre vigile”.
Quale ruolo recitano la violenza psicologica e la dipendenza economica di una donna dal proprio compagno?
“Il ruolo della violenza psicologica è centrale, fa da apripista per la nascita di rapporti disfunzionali. La dipendenza economica, unita alla sopraffazione psicologica dell’uomo sulla donna, non fanno altro che alimentare quella che rischia di diventare una vera e propria tempesta perfetta. Ritengo tuttavia, avendo ascoltato la storia di una persona a me nota, che l’indipendenza economica per una donna non sia l’unico elemento necessario per riuscire a riscattarsi da un rapporto con un uomo violento”.
Nei ringraziamenti ho notato un accenno a via Fondazza. Qual è, secondo te, l’importanza del tessuto sociale, del vicinato, quale ruolo possono avere in una vicenda di violenza domestica?
“L’importanza del tessuto sociale, degli amici, dei vicini di casa è centrale. Infatti ho proprio voluto ringraziare via Fondazza e il suo vociare che, a ogni ora del giorno, non ti dà mai la sensazione di essere solo.
Ti voglio raccontare un piccolo aneddoto, in chiusura di intervista. Durante il lockdown il tempo era molto fluido, ci siamo trovati a girare scene anche nel cuore della notte e, una di queste, è stata proprio la prima scena di violenza tra Marco e Rebecca, erano quasi le tre. Dopo nemmeno un’ora abbiamo sentito il campanello e abbiamo visto otto carabinieri che ci hanno intimato di aprire la porta chiedendoci spiegazioni per le urla e i rumori. Il momento è stato teso, poi, fortunatamente, quasi esilarante; però ci ha dato modo di capire quanto l’attenzione di tutti sia fondamentale per la tutela di chi subisce violenza”.
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