Edward Norton scende dal set di American History X, fa capolino in Ecce Homo di Caravaggio e ne buca malamente la tela. Botticelli quando ha dipinto la sua Venere sicuramente non immaginava che un giorno dalla sua conchiglia sarebbe uscita l’avvenente Pamela Anderson in costume da bagno. Con tanto di galleggiante in spalla.
Dietro ci sono la mente e le mani di Michele di Robe Artistiche. Durante il primo lockdown, ha lanciato una pagina Instagram per raccogliere la sua arte molto pop nata in un periodo di solitudine per niente soft e in poco tempo ha raggiunto oltre 11 mila follower.
L’ho raggiunto per cercare di comprenderla anche io, questa sua visione.
Nei tuoi collage poni in accostamento elementi, immagini, modelli ed espressioni importanti a livello socio-politico, così diversi, che possono apparire contrastanti, a tratti contrapposti. Non mancano il cinema e l’animazione, la musica e le rispettive icone. Rispecchiano le tue più grandi passioni?
“Assolutamente. Questo lavoro è nato dall’unione di tutte quelle che sono le mie passioni: arte ma anche animazione, film, musica, serie tv e la fotografia, specialmente quella storica che amo. Sono anche un grande appassionato di cinema e molte immagini sono nate mentre guardavo un film“.
Hai creato il profilo Instagram coi tuoi lavori durante la quarantena, com’è nata l’idea?
“Da un lato la quarantena è stata qualcosa di terribile, e su questo nessuno può affermare il contrario, dall’altro penso che per molti abbia rappresentato un momento in cui dare libero sfogo alle proprie passioni, spesso soffocate dalla mancanza di tempo. Ne ho iniziati a fare un paio così, postandoli sul mio profilo personale, poi dietro sostegno ed insistenza dei miei amici ho detto ‘Provo!’. E così ho fatto. Fortunatamente son piaciuti.
Se mi chiedi com’è nato il tutto, io penso che ci sia un discorso più profondo da fare: ognuno ha qualcosa da esprimere ma molto spesso non si sa come farlo. Questo bisogno l’avevo. Adesso, penso di aver trovato un modo per esprimere qualcosa e noto che c’è un riscontro, che piace. Ti dà una spinta ad andare avanti”.
Durante il lockdown l’assenza dell’altro è divenuta presenza costante delle nostre giornate. Nonostante l’iniziale risvolto negativo, un tale periodo di solitudine, forzata, e raccoglimento, non richiesto né desiderato, sono stati un’opportunità per conoscere meglio sé stessi? Alla fine, se non ci si ritaglia del tempo per farlo, come possiamo pretendere di conoscere l’altro che allo stesso tempo ci è simile e diverso?
“A dispetto della difficoltà del periodo, per coloro che volevano conoscere meglio sé stessi (perché di volontà si tratta) è stato non tanto un momento di riscatto quanto un’opportunità per tentare di riuscirci. Viviamo in una società in cui siamo sempre di fretta, di corsa a causa del lavoro, del traffico. Si ha poco tempo per sé stessi. Questo lockdown, per quanto pesante, ci ha concesso tempo: tempo per le nostre passioni, per sviluppare progetti e idee che, normalmente, durante la vita di tutti i giorni, non ci è possibile portare avanti.
Noi per primi siamo stati sopresi nell’avere tutto questo tempo a disposizione, non essendoci abituati ed è qualcosa che non sapevamo proprio come gestire. Penso che ci sia voluto un po’ per capire come gestirlo tutto questo tempo e, successivamente, quando abbiamo capito come farlo, abbiamo deciso su che cosa proiettarci e concentrarci, sia sulle nostre ambizioni e i nostri interessi che noi stessi.
A mio parere, conoscere sé stessi non serve per conoscere gli altri ma penso che sia utile per costruire un rapporto più sano con l’altro, quindi una versione più vera e migliore di sé nella relazione. Questo sicuramente può aiutare e far crescere rapporti migliori. Ogni persona è a sé, non esiste un manuale di comportamento”.
Questo processo di conoscenza, che per alcuni è sfociato in un’evoluzione, per altri è rimasto allo stadio iniziale senza apportare grandi cambiamenti, si è rivelato proficuo in quanto catalizzatore di nuovi rapporti e metro di giudizio severo di quelli preesistenti?
“Conoscere meglio sé stessi non può modificare i rapporti anche se può far riflettere: se si ha una certa consapevolezza dei propri rapporti interpersonali, questo processo non può cambiarne la percezione che noi ne abbiamo. Sicuramente la presa di coscienza di certi aspetti di sé, che non conoscevamo perché impossibilitati nel farlo, può averci fatto avvicinare a determinate persone piuttosto che ad altre, che potremmo definire nuove. Allo stesso tempo, non penso che questo possa farci allontanare dalle ‘vecchie’ tipologie di persone da cui eravamo attratti prima. Dipende dal tipo di epifania che ognuno di noi ha vissuto”.
Mi hai riferito di considerarti ciò che di più lontano c’è da un artista. Se scorro il tuo profilo, però, mi salta subito all’occhio la frase di Matisse che recita “Creativity takes courage” (la creatività richiede coraggio): non è forse un artista colui che crea? Mi sembra che tu abbia avuto il coraggio di esprimere la tua arte.
“Non mi considero un artista perchè non posso autodefinirmi tale. Peccherei di presunzione. Se chi osserva i miei lavori li percepisce come arte, mi fa solo che piacere. Il tutto si ricollega al nome che ho dato al mio profilo, Robe Artistiche. Quando ho incominciato a fare questi lavori io stesso non sapevo come chiamarli e qui, a Bologna in particolare, quando non sai come definire una cosa la chiami ‘roba’. Da lì, in modo ironico è nato Robe Artistiche.
Per quanto riguarda la frase di Matisse, ‘creativity takes courage’, secondo me si rifà più alla creatività che all’arte ed è una frase che mi rappresenta molto. In tanti dei miei lavori esprimo le mie idee e penso che per farlo ci voglia una certa dose di coraggio. Su di alcuni, prima di postarli, ho pensato abbastanza. La parola ‘coraggio’ può avere tante sfumature ma un po’ ho dovuto averne di fronte a un eventuale giudizio della gente. Avendo un profilo pubblico, quando pubblico, devo essere pronto ad affrontare anche delle critiche. Me le aspetto”.
Hai fatto della tua arte qualcosa che non fosse solo rappresentazione del reale ma soprattutto dell’ideale. Nei tuoi lavori crei un forte collegamento tra mondi molto diversi sia a livello estetico che concettuale e tematico nei quali, però, allo stesso tempo, si ravvisa un forte rapporto di continuità. Qual è il tuo intento? C’è un’idea di fondo che vorresti trasmettere o lasci alla libera interpretazione?
“È una bella domanda. I lavori che faccio penso si possano leggere su più livelli. Il livello basico è quello di mettere banalmente due immagini insieme. Su piattaforme come Instagram è il primo messaggio che passa. Tutto è nato grazie a questo. Poi c’è un livello più profondo che è quello che io voglio trasmettere. L’interpretazione può essere libera ma io cerco comunque di trasmettere il mio pensiero e lo faccio, in chiave di lettura, nelle descrizioni sotto le foto a cui, purtroppo, viene prestata poca attenzione. Lo capisco.
Di solito ho già un’idea che voglio esprimere e cerco di farlo attraverso una combinazione di immagini che posso già avere in mente oppure che devo andare a ricercare. Cerco di veicolare messaggi più pesanti e importanti e altri meno, più leggeri. Apprezzo molto lo scambio con chi osserva i miei lavori. Magari vedono cose che io non ho visto. L’arte è anche questo: confronto“.
Cerchi di utilizzare immagini storiche che tutti dovremmo ricordare: le utilizzi come strumento di divulgazione di conoscenza?
“Sì, ci provo, sperando di far nascere attraverso la condivisione l’interesse in chi guarda rispetto a ciò che c’è dietro l’immagine. Le foto importanti non lo sono perchè sono delle belle foto ma perchè sono foto che esprimono concetti importantissimi. Come il Burning Monk“.
Tu l’hai chiamata Waves, giusto? Perchè hai unito la fotografia del Burning Monk di Malcolm Browne alla Grande Onda di Konagawa di Hokusai.
“Sì, è un ossimoro. Il monaco è avvolto dal fuoco che rappresenta qualcosa di perennemente in agitazione. Qualcosa che non sta fermo, calmo. E nel fuoco c’è il monaco che, se si va a leggere la storia, fino all’ultimo momento non ha emesso un grido. È sempre stato immobile, cosa, già di per sé quasi impossibile.
Dall’altra parte c’è il mare che ci si aspetta disteso e tranquillo, in realtà, in questo caso, si tratta di un mare in tempesta, agitatissimo. Per questo è un ossimoro: sono argomenti che si intersecano”.
Uno dei tuoi lavori che mi è piaciuto di più è Last supper upon a skyscraper: hai incastrato, nel vero senso della parola, L’ultima cena di Leonardo e Pranzo in cima a un grattacielo di Ebbets.
“Ci ho visto qualcosa di molto semplice. Quando si pensa all”Ultima cena’ si fa riferimento a qualcosa di intoccabile e sacro ma alla fine gli apostoli erano uomini e la cena era un semplice pasto quindi, tralasciando per un attimo tutti i significati religiosi, era una cena tra uomini. Uomini divinizzati ma pur sempre uomini.
Ricorre spesso il tema dell’ossimoro e dell’analogia nei miei lavori. Importante è allo stesso modo la foto passata alla storia di questi operai, a New York, che, durante il periodo del boom economico, stanno consumando un semplice pasto sul luogo di lavoro”.
Ritorna spesso il tema religioso nelle tue opere…
“Quando lavori con immagini che si rifanno all’arte, soprattutto se italiana, è difficile non incappare in temi religiosi. La sfida, infatti, è stata quella di coinvolgere tematiche importanti senza ‘offendere’ nessuno, ricercando sempre un approccio sensibile e rispettoso”.
Non posso non chiederti di parlarmi della foto in cui ci sei tu, a metà con Medusa di Caravaggio, e che hai chiamato Duality of Quarantine. C’è dualità nell’immagine ma, penso, anche nella personalità che esprime, quella che durante la quarantena si è manifestata in modi diversi nelle case di tutti noi. A mio parere, questa tua opera è emblematica non solo di quel periodo ma del tuo intero lavoro, interessando in primis te stesso come soggetto dell’opera. Oltretutto è proprio durante la quarantena che sono nati i tuoi lavori.
“Giusta interpretazione. La foto che mi ero fatto era un semplice selfie inviato ad un amico in piena quarantena. L’abbinamento con Medusa rappresenta le due facce di come quasi tutti abbiamo vissuto quei mesi: da una parte ci sono io che sbadiglio, annoiato e mezzo addormentato, dall’altra c’è Medusa che rispecchia quella che era la nostra disperazione. Ovviamente è un’estremizzazione. Sono due antipodi e da lì il titolo”.
Tu stesso hai utilizzato un’immagine per esprimere meglio il tuo stato d’animo, a un tuo amico in questo caso, modalità assunta da tutti noi. Pensi, quindi, che l’immagine sia stata un buon sostituto della nostra mancanza di contatto? Può l’immagine dello stesso riuscire un minimo nel tentativo di riprodurlo in questo momento?
“Penso sia stato un palliativo. Sicuramente l’immagine, e quindi foto e video oltre al sentirsi tramite i social, ci hanno aiutato in questo percorso. Senza di questo sarebbe stato devastante. Ne ha alleviato i sintomi ma non ha curato la malattia, ovvero la mancanza di contatto e incontro diretto che neanche i social possono sostituire”.
Qual è stata allora l’importanza delle immagini durante la quarantena? Di noi come del mondo, veramente solo esterno, riprodotto sullo schermo di telefoni, tv e pc.
“Le immagini ci sono servite per viaggiare almeno con la fantasia, staccare e divagare, non potendolo fare fisicamente, permettendoci di pensare meno a tutta la situazione che stiamo vivendo. Le immagini, sia positive che negative, ci sono servite per prendere consapevolezza del momento oltre che tentare di viverlo in maniera più leggera”.
A dimostrazione che dalle grandi crisi nascono grandi consapevolezze e potenti rinascite. Perchè dei periodi grigi si può fare lo stesso un’arte. Basta avere il coraggio di tirare fuori i propri colori.
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